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Ai fini della sussistenza di una situazione di incapacità di intendere e di volere (quale prevista dall’art. 428 c.c.), costituente causa di annullamento del negozio, non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente un turbamento psichico tale da impedire la formazione di una volontà cosciente,

facendo così venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza in ordine all’importanza dell’atto che sta per compiere. Peraltro, laddove si controverta della sussistenza di una simile situazione in riferimento alle dimissioni del lavoratore subordinato, il relativo accertamento deve essere particolarmente rigoroso, in quanto le dimissioni comportano la rinuncia al posto di lavoro – bene protetto dagli artt. 4 e 36 Cost. – sicchè occorre accertare che da parte del lavoratore sia stata manifestata in modo univoco l’incondizionata e genuina volontà di porre fine al rapporto stesso”.

 

SOMMARIO: 1. La vicenda posta all’attenzione della Corte di Cassazione. -  2. Le questioni sullo sfondo. - 3. Brevi cenni sulla disciplina delle dimissioni: tra lavoro pubblico e privato.  - 4. Osservazioni conclusive.

1. Nel caso portato all’attenzione della Corte un geometra ex dipendente di un Comune emiliano, agisce in giudizio contro l’Ente al fine di ottenere l’accertamento dell’efficacia della revoca delle proprie dimissioni e/o la declaratoria di invalidità o inefficacia delle dimissioni stesse, poiché rassegnate in un momento di forte alterazione emotiva, causata da una condizione dell’ambiente lavorativo fonte di stress e insoddisfazione.

Il Tribunale dapprima, la Corte d’Appello di Bologna poi, respingevano la domanda ritenendo che la dichiarazione di invalidità delle dimissioni presupponesse una totale esclusione della capacità psichica e volitiva; in particolare, i giudici del gravame, in maniera contorta e contraddittoria, sostenevano che le dimissioni rese in una situazione di generale inconsapevolezza, quale “epilogo consapevole di una condizione di malessere lavorativo”, devono comunque ritenersi valide “secondo criteri di maggiore probabilità logica”, posto che non era stato denunciato un vero e proprio mobbing dal lavoratore ed anche in considerazione del fatto che pur avendo il CTU rilevato un “notevole turbamento psichico”, questo non era tale da escludere che il lavoratore si trovasse in una condizione di totale estromissione della capacità psichica e volitiva e, quindi, in condizioni di incapacità naturale.

La Cassazione, invece, di avviso completamente differente, accogliendo il ricorso, ribalta quanto stabilito in precedenza e fornisce importanti precisazioni, fissando alcuni principi di diritto in merito alle dimissioni del lavoratore, laddove vengano rese in stato di forte turbamento psichico.

 2. La prima questione affrontata dalla pronuncia annotata concerne la capacità di intendere e di volere in relazione all’art. 428 c.c. Innanzitutto occorre tenere presente la natura giuridica delle dimissioni: queste ultime, infatti, in quanto diritto potestativo del dipendente ed in quanto atto unilaterale recettizio[1], devono essere manifestazione di una scelta cosciente del lavoratore di porre fine al rapporto di lavoro. In applicazione dei principi codicistici, pertanto, le dimissioni sono annullabili nell’ipotesi in cui siano viziate da errore, violenza o dolo, oppure quando siano state rassegnate dal lavoratore in stato di incapacità naturale[2]. A tal proposito, per i giudici di legittimità non sembra possibile escludere che uno stato di forte stress nel quale venga a trovarsi il dipendente possa in concreto condizionare la formazione della volontà dello stesso, potendosi in merito parlare di incapacità naturale, ossia di un turbamento psichico abnorme, anche se temporaneo, che impedisca una consapevole valutazione delle proprie azioni.[3] Non vi è dubbio, pertanto, per la Corte, che anche solo una fase transitoria di turbamento possa incidere notevolmente sulla formazione della volontà cosciente, in ordine all’importanza dell’atto che si sta per compiere[4]

L’incapacità naturale consiste, infatti, secondo la Cassazione, in ogni stato psicologico, pur se improvviso, transitorio e non dovuto a un vero e proprio processo patologico, che “abolisca o scemi notevolmente le facoltà intellettive o volitive, in modo da impedire od ostacolare una seria valutazione degli atti che si compiono”. La prova di tale incapacità, inoltre, “può essere data con ogni mezzo o in base a indizi e presunzioni che, anche da soli, possono essere decisivi ai fini della sua configurabilità”[5]. Qualora il lavoratore sia affetto da una malattia psichica , invece, accertata la totale incapacità di un soggetto in due determinati periodi, per il periodo intermedio si verificherebbe l’inversione dell’onere della prova. Precisa la Corte che “deve essere dimostrato, da chi vi abbia interesse, che il soggetto abbia agito in una fase di lucido intervallo”. (c.d. presunzione iuris tantum)[6].

La seconda questione affrontata dai giudici attiene alle peculiari caratteristiche delle dimissioni e alle conseguenze che possono derivare dal suo annullamento. Punto saliente è la protezione di rango costituzionale che il diritto del lavoro riceve nel nostro ordinamento (art. 4 e 36 Cost.), sicché la decisione unilaterale del dipendente di rinunciare al rapporto d’impiego impone di valutare con una indagine rigorosa tutti gli elementi – sia quelli inerenti al contesto aziendale, sia quelli intrinseci alla sfera emotiva e personale del lavoratore - che possono gravare sulla piena capacità di comprensione delle conseguenze che derivano da tale azione.[7] In particolare, è consolidato orientamento della Corte che il diritto a riprendere il lavoro nasca con la sentenza di annullamento ex art. 428 c.c. . Ragion per cui, laddove il giudice accerti l’incapacità naturale del lavoratore, il diritto a riprendere il lavoro e quello di chiedere le retribuzioni dovute retroagirebbe al momento della domanda[8].

La Corte ritiene, infatti, che nel rapporto di lavoro alle dipendenze della Pubblica amministrazione, non coincidendo del tutto la disciplina con quella prevista per il lavoro privato, al dipendente dimissionario si applichi l’istituto della riammissione in servizio, che non comporta l’automatico rientro del dipendente nel posto precedentemente occupato, ma la costituzione di un nuovo rapporto[9]; in ogni caso rimane valido e va applicato il principio generale della piena genuinità e dell’autenticità delle dimissioni.

 3. Le questioni affrontate dalla Corte offrono lo spunto per riflettere sulla nuova disciplina delle dimissioni seppure il caso sia anteriforma. Con l’incessante diffusione del fenomeno delle “dimissioni in bianco”, il legislatore ha ritenuto che fosse necessario intervenire attraverso l’introduzione di una specifica procedura telematica[10] per la comunicazione al datore di lavoro delle dimissioni e della risoluzione consensuale[11].

Questione di rilievo è la applicabilità della nuova disciplina ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni; nella legge n. 92/2012 era espressamente previsto che, ai sensi dell’art. 1, comma 7 le disposizioni “costituiscono principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, dlgs n. 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni”, quindi la applicabilità al personale contrattualizzato alle dipendenze della pubblica amministrazione era ammessa, ma solo in funzione di un quadro regolatorio programmatico e di indirizzo, dovendosi attendere, per la concreta attuazione, l’emanazione di appositi provvedimenti. Lo stesso comma 8 dell’art. 1 stabilisce che “al fine dell’applicazione del comma 7, il Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, individua e definisce, anche mediante iniziative normative, gli ambiti, le modalità e i tempi di armonizzazione della disciplina relativa ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche”. Sulla base di tali considerazioni il Ministero ne escludeva, pertanto, “una applicabilità immediata al personale contrattualizzato delle università e, più in generale, delle pubbliche amministrazioni”.[12]  

Nell’ art. 26 del decreto legislativo 151 del 2015 - che appunto si propone di salvaguardare la genuinità della volontà del lavoratore di far cessare il rapporto di lavoro o di esercitare il “diritto di ripensamento”[13] - non si rinvengono analoghe specificazioni: si dovrebbe ritenere, pertanto, che la relativa disciplina sia applicabile anche ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni. Ciononostante la Circolare n. 12 del 4 marzo 2016 il Ministero del lavoro si è pronunciata – in modo più categorico che nel passato - nel senso della non applicazione della citata disposizione normativa ai rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1 comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, pur non essendoci un riferimento legislativo espresso al riguardo[14], giustificando la scelta con il fatto che nel lavoro pubblico il fenomeno delle “dimissioni in bianco” non risulta praticato e quindi una tale procedura risulterebbe superflua.

Questa interpretazione, peraltro, si pone in contrasto con l’art. 26 del dlgs 15/72015 che, si ribadisce, non fa alcuna distinzione tra lavoro pubblico e impiego privato e non andrebbe ignorato che la “esclusione” è ricondotta dai redattori della circolare esclusivamente all’assenza nell’ambito dei rapporti di pubblico impiego delle dimissioni “in bianco”.

Si ritiene che la scelta del legislatore sia frutto di una valutazione maturata alla luce dell’osservanza dei principi del “buon andamento” e dell’”imparzialità” della Pubblica Amministrazione (art. 97 Cost.)[15], nonché, probabilmente, del  principio di uguaglianza (art. 3 Cost.). Appare evidente, infatti, la diversità di trattamento che la mancata estensione dell’art. 26 al pubblico impiego determina tra i lavoratori privati e quelli alle dipendenze della P.A. In conclusione, posto che la nuova disciplina sulle dimissioni e sulla risoluzione consensuale del contratto di lavoro non si applica ai lavoratori alle dipendenze della Pubblica Amministrazione, permane, nei loro confronti, il principio della libertà di forma di cui agli artt. 2118 e 2119 c.c.

4. La disciplina introdotta dal d.lgs. 151/2015 consente al lavoratore di revocare le dimissioni entro 7 giorni dalla trasmissione telematica. Tale facoltà non richiede alcuna motivazione e, pertanto, può essere esercitata discrezionalmente dal lavoratore. Successivamente a tale periodo di ripensamento, non è chiaro se e in che misura possano ancora valere le considerazioni espresse dalla Suprema Corte con la sentenza in commento. Allo stato è pertanto lecito domandarsi che tipo di applicazione dovrà farsi dei principi enunciati dalla Suprema Corte una volta che siano decorsi i sette giorni previsti dalla legge; applicando i principi generali, difficilmente potrà argomentarsi nel senso della esclusione dell'esperibilità delle azioni di nullità e di annullamento, non essendo previsto dalla norma alcun termine decadenziale oltre a quello contenuto al comma terzo dell'art. 428 c.c.. Ad ogni modo, alla luce del meccanismo previsto dall'attuale disciplina, è possibile che in futuro i giudici applicheranno tali principi generali con maggior rigore, ponendo a carico del lavoratore l'onere di dimostrare l’incapacità naturale (anche parziale) non solo alla data delle dimissioni, ma anche per tutto il periodo durante il quale il medesimo avrebbe potuto revocarle; senza mai dimenticare, però, la protezione di rango costituzionale (artt. 4 e 36 Cost.) che il diritto al lavoro riceve.

Avv. Matilde Pannone

Dottore di Giurisprudenza, Facoltà di Giurisprudenza, Università della Campania Luigi Vanvitelli

 

[1] “Le dimissioni del lavoratore subordinato costituiscono un atto unilaterale recettizio avente contenuto patrimoniale a cui sono applicabili, ai sensi dell’art. 1324 c.c., le norme sui contratti, salvo diverse disposizioni di legge.” Cass. Lavoro sent. 1070/2016

[2] Cfr. Cass. 10 giugno 2009, n. 13367: Cass. 2 ottobre 2008, n. 24405; Cass, 8 luglio 2008, n. 18731; Cass. 18 marzo 2008, n. 7292; Cass. 5 ottobre 2007, n. 20887; Cass. 14 agosto 2004, n. 15926; Cass. 29 agosto 2002, n. 12693; Cass. 22 marzo 2000, n. 3380; Cass. 26 maggio 1999, n. 5154; Cass. 16 luglio 1996, n. 6426.

[3] Cfr. Cass. 14 maggio 2003, n. 7485; Cass. 12 luglio 1991, n. 7784.

[4] Cass.1 settembre 2011, n. 17977,Cass. 15 gennaio 2004, n. 515; Cass. 22 maggio 1969, n. 1797.

[5] Cfr. Cass.7 aprile 200, n. 4344; Cass. 28 marzo 2002, n. 4539.

[6] Cfr. Cass. 4 marzo 2016, n. 4316; Cass. 9 agosto 2011, n. 17130; Cass. 28 marzo 2002, n. 4539)

[7] Cfr.Cass. 27 agosto 2003, n. 12549: Cass. 11 novembre 2010, n. 22901; Cass. 9 aprile 2014, n. 8361; Cass. 3 marzo 2015 n. 4241;

[8] Cfr. Cass. 14 aprile 2010, n. 8886.

[9] Cass. SU 21 dicembre 2009, n. 26827; Cass. 18 dicembre 2017, n. 30342.

[10] La nuova procedura delle dimissioni online è stata introdotta dal Decreto Ministeriale (Lavoro) del 15 dicembre 2015 in attuazione dell’art. 26 del Decreto Legislativo n. 151 del 2015

[11] Cfr G. Proia, La nuova disciplina delle dimissioni e della risoluzione consensuale, q. Riv., 2017,1.

[12] Min Lav., interpello 22 novembre 2012, n. 35 : il Ministero del lavoro, con interpello 35/2012 aveva fornito precedenti chiarimenti in merito alla procedura di convalida delle dimissioni nell’ipotesi di prestazioni svolte alle dipendenze di Pubbliche amministrazioni. Pur non escludendone l’applicabilità, il Ministero riteneva indispensabile per la concreta attuazione della norma, l’adozione di appositi provvedimenti per l’armonizzazione del lavoro privato con quello delle pubbliche amministrazioni, giungendo alla conclusione che la noema non fosse immediatamente applicabile al settore pubblico.

[13] Ombretta Dessì, La nuova disciplina sulle dimissioni e sulla risoluzione consensuale del contratto di lavoro, Giornale di diritto del lavoro e delle relazioni industriali n. 152,2016, 4 ,p. 641-669.

[14] Mainardi S., Il campo di applicazione del d.lgs. n. 23/2015. Licenziamenti illegittimi, tutele crescenti.LPA, p. 29 (2015). Cfr. Ricci M., Lavoro privato e lavoro pubblico: rapporti tra le due ipotesi di riforma, estensione delle regole e modelli. LPA, p 476-477 (2014).

[15] Al riguardo cfr. Romeo,p. 298-299, Il dilemma delle tutele nel nuovo diritto del lavoro: i campi esclusi dalla riforma del Jobs sct, ADL, 2015.