La recente decisione del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (sentenza del 10 febbraio 2015, Giudice del lavoro dott.ssa Adriana Schiavoni) affronta, con particolare attenzione, un caso di mobbing esaminando puntualmente i molteplici atti vessatori, posti in danno del lavoratore, dirigente medico di ortopedia, licenziato dalla azienda sanitaria ove prestava servizio.
Ed è così che il Giudice, nel riconoscere la illegittimità del licenziamento ordina la immediata reintegra nel posto precedentemente occupato, dopo aver accuratamente accertato i punti salienti della vicenda ove, peraltro, emergeva pacificamente il clima di conflittualità che aveva caratterizzato il rapporto tra il ricorrente e i dirigenti dell'Ospedale.
Pur tralasciando in questa sede tutte le complesse vicende del caso, appare opportuno segnalare la completa analisi degli eventi, dettagliatamente vagliati dal Magistrato, in merito al mobbing ed alle conseguenze dannose che vengono pur diffusamente messe in rilevo nella completa decisione, ove il giudicante osserva come "il ricorrente assume che i comportamenti datoriali descritti sono stati, per sistematicità e vessatorietà, specificamente finalizzati al suo danneggiamento professionale, psicologico e sociale, ed, in ultimo, alla sua definitiva espulsione dall'ambiente lavorativo, in quanto "espressione di un disegno datoriale caratterizzato da intenti ritorsivi e intimidatori, tale da integrare gli estremi del "c.d. mobbing", fonte di danni alla salute del lavoratore".
Ed è così che il Tribunale passa a considerare l'intera vicenda al fine di ricostruirla in termini unitari onde accertare l'effettiva sussistenza del dedotto "mobbing", precisando che, come è noto, "il mobbing costituisce un fenomeno mutuato dalla psicologia e dalla sociologia ancora oggi senza una propria autonoma fisionomia giuridica in quanto di tale istituto non esiste una definizione normativa".
Basta solo ricordare che la Corte Costituzionale, con la sentenza 19 dicembre 2003, n. 359, dichiarava costituzionalmente illegittima la legge della regione Lazio 11 luglio 2002 n. 16, che ne aveva dato una definizione giuridica, per violazione del principio secondo cui spetta allo Stato fornire la nozione giuridica di un fenomeno inquadrabile nell'ambito dell'ordinamento civile, ed ancora che la circolare Inail n. 71 del 2003, che aveva inserito tra le malattie tabellate anche quelle psichiche da mobbing, è stata annullata da Tar Lazio, sez. III ter, n. 5454/2005.
"Allo stato, pertanto, la definizione del fenomeno è quella che si ricava dall'esame delle decisioni della giurisprudenza di legittimità e di merito, nonché dalle acquisizioni della scienza medico--legale.La prima teorizzazione del concetto di mobbing si deve allo studioso H. Leymann, il quale lo definì come "terrore psicologico sul posto di lavoro"; il termine deriva, com'è risaputo, dal verbo inglese to mob che significa "assalire, aggredire accerchiare qualcuno", utilizzato in etologia per descrivere i comportamenti del branco volti ad espellere un membro del gruppo (sul punto vedi rel. Convegno AMI di Bergamo del 28 ottobre 2011 "La scienza della persecuzione: aspetti giuridici, metodologici e psicologici del mobbing, stalking, straining e bossing").
Più di recente una articolata definizione è stata elaborata dallo psicologo del lavoro H. Ege che lo ha descritto come "... situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità. Il mobbizzato si trova nell'impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell'umore che possono portare anche a invalidità psicofisiche permanenti di vario genere".
Lo studioso, inoltre, individua le diverse categorie in cui possono classificarsi i possibili episodi di condotte mobbizzanti: 1) attacchi ai contatti umani (limitazioni alla possibilità di esprimersi, continue interruzioni del discorso, critiche e rimproveri costanti, sguardi e gesti con significato negativo, etc.; 2) isolamento sistematico (trasferimento della vittima a un luogo di lavoro isolato, comportamenti tendenti ad ignorarla, divieti di parlare o intrattenere rapporti con questa persona; 3) cambiamenti delle mansioni (revoca di ogni mansione da svolgere, assegnazione di lavori senza senso, nocivi o al di sotto delle capacità della vittima, cambiamenti comuni degli incarichi; 4) attacchd contro la reputazione (calunnie, pettegolezzi, turpiloquio, valutazione sbagliata o umiliante delle sue prestazioni etc.; 5) violenza o minacce di violenza (minacce o atti di violenza fisica o a sfondo sessuale).
In un'ottica diversa, strettamente medica e dunque meno ancorata alle problematiche dell'ambiente e delle dinamiche di sviluppo del fenomeno, altri autori individuano il mobbing in quella "situazione di aggressione, di esclusione e di emarginazione di un lavoratore da parte dei suoi colleghi o dei suoi superiori", una sorta di "malattia sociale trasversale", che si connota per "la continuità delle aggressioni nel tempo, lo stillicidio di eventi persecutori, l'intensificazione progressiva di attacchi che portano la vittima all'isolamento, all'emarginazione, al disagio ed alla malattia".
Condivisa è poi la distinzione tra mobbing orizzontale, che si verifica quando un certo numero di colleghi emargina qualcuno che, per qualche motivo, è inviso al gruppo ovvero mobbing verticale attuato dal capo verso i sottoposti.
Circa i comportamenti individuati come "mobbizzanti", va detto che esistono comportamenti che possono dirsi "tipici", perché già espressamente previsti dall'ordinamento come illeciti e contrari a norme legislative e/o contrattuali, e quindi già di per sé contro legem, ed altri comportamenti "atipici" - di per sé generalmente neutri - che, letti teleologicamente tra loro ed in connessione eventuale con comportamenti tipici, permettono di ricostruire un quadro vessatorio e persecutorio nei confronti del lavoratore.
Tratti comuni di tutti i fenomeni di mobbing sarebbero comunque la ripetitività nel tempo delle condotte e la loro riconducibilità ad identico disegno, quello che ha cioè per oggetto l'esclusione, l'emarginazione del lavoratore. Si precisa, infatti, che non è considerabile mobbing la singola azione, consistente in un unico demansionamento, un trasferimento gravoso, un ordine di servizio umiliante, ma occorre una strategia, un attacco continuato, ripetuto, duraturo.
In genere gli studiosi concordano nell'individuare in sei mesi la durata minima dell'arco temporale necessario e sufficiente per poter diagnosticare una situazione di mobbing, richiedendosi da alcuni una frequenza degli attacchi non inferiore alla settimana, da altri anche una cadenza delle azioni ostili di almeno alcune volte al mese.
Gli elementi caratterizzanti il mobbing sono quindi costituiti dalla potenzialità lesiva delle condotte (la fattispecie vietata non rimane integrata quando si tratti di una percezione soggettiva da parte del lavoratore, priva di elementi di oggettiva consistenza), dalla loro frequenza (che serve a differenziare un singolo atto di ostilità da quel conflitto sistematico e persecutorio che è il "mobbing") e dalla ripetitività nel tempo delle aggressioni. Ciò che distingue il mobbing dal conflitto puro e semplice nei rapporti interpersonali è appunto il continuo ripetersi in un arco di tempo di una certa durata del trattamento vessatorio inflitto alla vittima.
Secondo la psicologia del lavoro, in particolare, il mobbing presuppone che la vicenda lavorativa conflittuale non sia stabile, ma in evoluzione secondo una progressione di fasi causalmente legate l'una all'altra.
Tali fasi sono sei e sono state così descritte: "dopo la c.d. condizione zero, di conflitto fisiologico normale e accettato, si passa alla prima fase del conflitto mirato, in cui si individua la vittima e verso di essa si dirige la conflittualità generale ... la seconda fase è il vero e proprio inizio del mobbing, nel quale la vittima prova un senso di disagio e di fastidio ... la terza fase è quella nella quale il mobbizzato comincia a manifestare i primi sintomi psicosomatici, i primi problemi per la sua 'salute ... la quarta fase del mobbing è quella caratterizzata da errori e abusi dell'amministrazione del personale ... la quinta fase del mobbing è quella dell'aggravamento delle condizioni di salute psicofisica del mobbizzato che cade in piena depressione ed entra in una situazione di vera e propria prostrazione ... la sesta fase, peraltro indicata solo e fortunatamente quale fase eventuale, nella quale la storia del mobbing ha un epilogo: nei casi più gravi nel suicidio del lavoratore, negli altri nelle dimissioni, o anticipazione di pensionamenti, o in licenziamenti" (in tal senso, Trib. Forlì, sentenza del 15.03.2001, est. Sorgi).
In conclusione, come ribadito dalla consolidata giurisprudenza di legittimità, ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti se considerati singolarmente - che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi (cfr., tra le tante, Cass., sez. lav., 6 agosto 2014, n. 17698; Cass., sez. lav., 7 agosto 2013, n. 18836; Cass., sez. lav., 5 novembre 2012, n. 18927; Cass., sez. lav., 17 febbraio 2009, n. 3785).
Il dato oggettivo quindi, della serialità ed aggressività delle azioni, si combina con quello soggettivo della finalità vessatoria e persecutoria dell'autore che, specie in presenza di atti in sé leciti, permette di giungere ad una valutazione finale e complessiva di disvalore.
Quanto poi al sistema di tutele approntabili in favore del lavoratore la strada è stata già delineata dalla giurisprudenza che per prima si è espressa sul punto e ha trovato il consenso unanime della dottrina ed ha individuato nell'art. 2087 c.c., norma immediatamente precettiva posta a salvaguardia dell'integrità fisica e psichica del lavoratore e della sua personalità morale, una disposizione di chiusura che consente di sanzionare ogni tipo di condotta suscettibile di produrre un danno ingiusto a diritti costituzionalmente garantiti.
Sulla base di tali circostanziate premesse riportate in via generale e venendo al caso di specie,il Giudice osserva che il ricorrente lamenta di essere stato oggetto di diverse tipologie di comportamenti vessatori, aventi carattere di permanenza e sistematicità, dipanatisi nell'arco di circa otto anni, quali, in estrema sintesi, svuotamento delle mansioni ed emarginazione lavorativa, omessa risposta alle richieste avanzate, trasferimenti immotivati, illegittimità dei vari giudizi medico-legali espressi dai competenti organi dell'amministrazione ed, infine, il licenziamento.
Orbene, al riguardo, rileva il giudicante come dalla copiosa documentazione in atti e dalle risultanze processuali può senz'altro ritenersi raggiunta la prova dell'inadempimento datoriale ed, in particolare, del fatto che per un periodo temporale piuttosto esteso (circa otto anni), il ricorrente sia stato sottoposto ad una serie di comportamenti vessatori, puntualmente descritti e provati, ad opera dell'amministrazione convenuta nella persona dei vari dirigenti aziendali avvicendatisi nel corso del tempo.
Ed è così che, con puntualità, il Giudicante ripercorre la intera vicenda in esame, sin dal suo inizio, richiamando le circostanze persecutorie, accertate nel corso del tempo e confermate peraltro da precedenti provvedimenti giudiziali dello stesso Tribunale; ritenendo così ampiamente provata anche la dequalificazione professionale del ricorrente.
Ebbene, nel caso in esame e dalla verifica di tutti gli episodi rappresentati che hanno trovato il conforto dell'istruttoria, come si ricava dalla segnalata decisione, il ricorrente ha subito progressivamente un ridimensionamento qualitativo e quantitativo delle mansioni svolte, fino ad essere sostanzialmente privato di tutte le attività rientranti nel profilo della qualifica di appartenenza, ovvero in quella di dirigente medico chirurgo, vedendo pertanto del tutto esautorato il proprio ruolo all'interno dell'amministrazione sanitaria.
Ed infatti, a partire dal giugno del 2000, il ricorrente è stato progressivamente privato dell'attività operatoria, dapprima con esclusione dalle sedute operatorie ordinarie, poi con esclusione dai turni pomeridiani, notturni, festivi e di reperibilità; in seguito, ridotto praticamente alla totale inattività.
Peraltro, successivamente trasferito in via di fatto presso la Direzione Generale, collocato in locali angusti, inidonei all'espletamento di qualsiasi attività, veniva definitivamente isolato dall'ambiente lavorativo e addirittura, per questo periodo, neppure risultava la sede lavorativa sulle attestazioni relative allo stato di servizio. Anche in seguito al trasferimento presso un diverso presidio ospedaliero nulla mutava, permanendo, infatti, l'esclusione del ricorrente dall'attività operatoria e dai turni pomeridiani, notturni e di reperibilità. Situazione, quest'ultima, rimasta inalterata sino al licenziamento.
Dalla documentazione agli atti, effettivamente emerge che dal momento in cui al ricorrente veniva inibito lo svolgimento dell'attività chirurgica, e, poi, anche quella di reparto, il ruolo del medesimo all'interno della struttura della amministrazione resistente risulta nella sostanza svuotato di ogni contenuto effettivo, realizzandosi conseguentemente una sottoutilizzazione ed un progressivo impoverimento delle attitudini lavorative e professionali dell'istante, tenuto conto anche del fatto che l'attività medica, ed in particolare l'attività di un medico chirurgo, necessita della pratica quotidiana. Risultando in conclusione provata l'avvenuta dequalificazione del ricorrente.
Il comportamento tenuto dall'amministrazione resistente, come già evidenziato, non si esaurisce, tuttavia, nella condotta di demansionamento appena descritta, assumendo le condotte datoriali, valutate unitariamente, in connessione teleologica tra loro, quei caratteri di vessatorietà, permanenza e sistematicità, tali da poter ritenere integrato, nel caso di specie, il fenomeno del mobbing.
Infatti, il ricorrente ha descritto gli iniziali comportamenti di sottile intimidazione e vessazione adottati dall'amministrazione resistente nei suoi confronti, confermati dalle risultanze processuali e dalla copiosa documentazione agli atti. Ed a fronte delle reiterate denunce, prima verbali e poi scritte del ricorrente circa le inefficienze organizzative e le carenze strutturali dell'ospedale, l'Azienda resistente ha inizialmente contestato e criticato il suo operato con contestazioni disciplinari alle quali non seguì, tuttavia, alcun provvedimento sanzionatorio e che, pertanto, assumono carattere puramente intimidatorio rispetto alle iniziative di denuncia, per poi passare al silenzio e all'acquiescenza rispetto alle reiterate e motivate richieste del ricorrente, fino poi a giungere ai provvedimenti di sostanziale svuotamento delle mansioni, ai continui trasferimenti da un ufficio all'altro e alla conseguente marginalizzazione dell'attività lavorativa ed, in ultimo, al licenziamento del lavoratore.
Il tutto con un progressivo peggioramento delle condizioni di salute dell'istante.
In conclusione, dalla lettura complessiva delle condotte datoriali emerge con chiarezza l'intento persecutorio nei confronti del ricorrente: tutti gli atti posti in essere dall'amministrazione si inseriscono infatti in una strategia complessiva diretta all'emarginazione e al definitivo allontanamento del ricorrente dal contesto lavorativo.
Ebbene, in omaggio alle regole generali di riparto degli oneri probatori in tema di responsabilità contrattuale ai sensi dell'art. 2087 cc, il ricorrente ha allegato l'inadempimento datoriale fornendo, altresì, la prova del danno conseguenza dell'inadempimento e del nesso causale tra l'effetto della violazione dell'obbligo di sicurezza ed il pregiudizio subito; viceversa alcuna prova liberatoria è stata offerta dall'Azienda convenuta che anche nel presente giudizio si è limitata ad una generica contestazione di tutte le circostanze dedotte nel ricorso introduttivo ed emergenti dalla copiosa documentazione prodotta in atti. Da ciò derivando l'obbligo per l'azienda datrice di risarcire i danni anche alla salute, come pur accertati da completa consulenza tecnica d'ufficio che il Giudice recepisce.
Ed il Tribunale, in merito alla determinazione del quantum debeatur, in presenza di un danno alla persona, riconosce la risarcibilità "di due distinte figure di danno, quello patrimoniale e quello non patrimoniale".
"Come è noto, la rilettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 ce, come norma deputata alla tutela risarcitoria del danno non patrimoniale inteso nella sua più ampia accezione, ha riportato il sistema della responsabilità aquiliana nell'ambito della bipolarità prevista dal vigente codice civile che distingue solo tra danno patrimoniale (art. 2043 ce) e danno non patrimoniale (art. 2059 cc) (sent. n. 8827/2003; n. 15027/2005; n. 23918/2006).
In particolare il risarcimento del danno patrimoniale da fatto illecito è connotato da atipicità, postulando l'ingiustizia del danno di cui all'art. 2043 ce, la lesione di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante (sent. 500/1999), mentre quello del danno non patrimoniale è connotato da tipicità, perché tale danno è risarcibile solo nei casi determinati dalla legge e nei casi in cui sia cagionato da un evento di danno consistente nella lesione di specifici diritti inviolabili della persona (sent. n. 15027/2005; n. 23918/2006).
Con precipuo riferimento al danno non patrimoniale, il Tribunale ritiene brevemente di richiamare la lettura, costituzionalmente orientata, data dalle sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 all'art. 2059 ce, completata alla luce della nota decisione delle Sezioni Unite n. 26972/2008.
Notoriamente il danno non patrimoniale si identifica con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica ed il suo risarcimento postula la verifica della sussistenza degli elementi nei quali si articola l'illecito civile extracontrattuale definito dall'art. 2043 c.c..
L'art. 2059 ce, non delinea una distinta fattispecie di illecito produttiva di danno non patrimoniale, ma consente la riparazione anche dei danni non patrimoniali, nei casi determinati dalla legge, nel presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della struttura dell'illecito civile, che si ricavano dall'art. 2043 ce (e da altre norme, quali quelle che prevedono ipotesi di responsabilità oggettiva), elementi che consistono nella condotta, nel nesso causale tra condotta ed evento di danno, connotato quest'ultimo dall'ingiustizia, determinata dalla lesione, non giustificata, di interessi meritevoli di tutela, e nel danno che ne consegue (danno-conseguenza, secondo opinione ormai consolidata: Corte cost. n. 372/1994; S.U. n. 576, 581, 582, 584/2008). L'ambito della risarcibilità del danno non patrimoniale si ricava dall'individuazione delle norme che prevedono siffatta tutela ( in primo luogo l'art. 185 cp., che prevede la risarcibilità del danno patrimoniale conseguente a reato e poi altri casi espressamente previsti da leggi ordinarie ) e, al di fuori dei casi determinati dalla legge, in virtù del principio della tutela minima risarcitoria spettante ai diritti costituzionali inviolabili, la tutela è estesa ai casi di danno non patrimoniale prodotto dalla lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione.
Per effetto di tale estensione, va ricondotto nell'ambito dell'art. 2059 c.c., il danno da lesione del diritto inviolabile alla salute (art. 32 Cost.) denominato danno biologico, laddove in precedenza la tutela del danno biologico era invece apprestata grazie al collegamento tra l'art. 2043 ce e l'art. 32 Cost. (vedi sent. n. 15022/2005; n. 23918/2006).
Ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale, sono, dunque, necessarie, seguendo l'insegnamento delle Sezioni Unite, le seguenti condizioni: a) che l'interesse leso (e non il pregiudizio sofferto) abbia rilevanza costituzionale; b) che la lesione dell'interesse sia grave, nel senso che l'offesa superi una soglia minima di tollerabilità, come impone il dovere di solidarietà di cui all'art. 2 Cost.; c) che il danno non sia futile, ma abbia una consistenza che possa considerarsi giuridicamente rilevante.
Per quanto riguarda il rapporto di lavoro, le Sezioni Unite hanno confermato che il risarcimento del danno non patrimoniale discende, oltre che dai principi costituzionali, anche dall'espressa disposizione di cui all'art. 2087 del codice civile.
Venendo alla liquidazione va ricordato che nell'ambito della categoria generale ed unitaria "danno non patrimoniale", non esistono distinte sottocategorie, ma il riferimento a vari tipi di pregiudizio (danno morale, danno biologico, danno esistenziale, da vita di relazione ecc.. ) viene effettuato solo a fini descrittivi senza implicare il riconoscimento di distinte categorie di danno autonomamente e cumulativamente risarcibile (cfr. Cass. n. 26972/2008).
Al riguardo, anche di recente la Suprema Corte ha affermato che "il grado di invalidità permanente espresso da un parere medico legale esprime la misura in cui il pregiudizio alla salute incide su tutti gii aspetti della vita quotidiana della vittima, restando preclusa la possibilità di un separato ed autonomo risarcimento di specifiche fattispecie di sofferenza patite dalla persona, quali il danno alla vita di relazione e alla vita sessuale, il danno estetico e il danno esistenziale. Soltanto in presenza di circostanze specifiche ed eccezionali, tempestivamente allegate dal danneggiato, le quali rendano il danno concreto più grave, sotto gli aspetti indicati, rispetto alle conseguenze ordinariamente derivanti dai pregiudizi dello stesso grado sofferti da persone della stessa età, è consentito al giudice, con motivazione analitica e non stereotipata, incrementare le somme dovute a titolo risarcitorio in sede di personalizzazione della liquidazione" (così Cass., sez. Ili, 7 novembre 2014, n. 23778). Ed ancora: "il danno biologico (cioè la lesione della salute), quello morale (cioè la sofferenza interiore) e quello dinamico-relazionale (altrimenti definibile "esistenziale", e consistente nel peggioramento delle condizioni di vita quotidiane, risarcibile nel caso in cui l'illecito abbia violato diritti fondamentali della persona) costituiscono componenti dell'unitario danno non patrimoniale che, senza poter essere valutate atomisticamente, debbono pur sempre dar luogo ad una valutazione globale. Ne consegue che, in caso di mancata liquidazione del cosiddetto danno morale, occorre che il ricorrente, in sede di impugnazione della sentenza, non si limiti ad insistere sulla separata liquidazione di tale voce di danno, ma che articoli chiaramente la doglianza come erronea esclusione, dal totale ricavato in applicazione delle cosiddette "tabelle di Milano", delle componenti di danno diverse da quella originariamente descritta come "danno biologico", risultando, in difetto, inammissibile la censura atteso il carattere tendenzialmente onnicomprensivo delle previsioni delle predette tabelle" (in tal senso Cass., 24 settembre 2014, n. 20111).
Premesso che il danno non patrimoniale deve essere integralmente risarcito, un sistema in cui si evitino le duplicazioni impone di ritenere assorbiti nel danno biologico ed. dinamico e nel danno morale tutti i pregiudizi derivanti dall'illecito, sia contrattuale che extra contrattuale. Il primo tipo di pregiudizio ricorre " ove il turbamento dell'animo, il dolore intimo sofferti siano accompagnati da degenerazioni patologiche della sofferenza. Ove siano dedotte siffatte conseguenze, si rientra nell'area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente."
Il secondo si definisce invece come "la sofferenza soggettiva in sé considerata, non come componente di più complesso pregiudizio non patrimoniale. Ricorre "ove sia allegato il turbamento dell'animo, il dolore intimo sofferto, ad es., dalla persona diffamata o lesa nella identità personale. Ne deriva che la sofferenza non accompagnata da degenerazioni patologiche costituisce danno morale, mentre, ove dette degenerazioni siano riscontrabili, si ricadrà nell'ampia categoria del danno biologico, considerato nel suo aspetto "dinamico".
In presenza di degenerazioni patologiche il risarcimento si esaurisce nel danno biologico, la cui misura, qualora ci si avvalga delle tabelle, deve essere modulata in modo da tenere conto delle sofferenze patite dal soggetto leso, non liquidando una posta di danno aggiuntiva ma come fattore di "personalizzazione" del danno.
In ordine poi ai criteri per una liquidazione di tale danno è inevitabile il ricorso al combinato disposto degli art. 2056 e 1226 c.c., che non esclude tuttavia l'utilizzo di parametri ragionevoli ed uniformi per la generalità delle persone fisiche da adattarsi al caso concreto, con aumenti e diminuzioni, grazie ad una personalizzazione quantitativa e qualitativa.
Pur seguendo tale nuova impostazione dogmatica, ancora oggi appare dunque corretto il ricorso al criterio equitativo ragionato del valore medio del punto d'invalidità, da individuarsi concretamente, e sempre fatti salvi gli adeguamenti che potrebbero rendersi opportuni in considerazione della par¬ticolarità del caso concreto, grazie all'utilizzo delle nuove tabelle elaborate dal Tribunale di Milano, (sulla cui vocazione nazionale e sulla cui corrispondenza ai criteri di equità imposti dal codice civile si veda da ultimo Cass. n. 12408/11), che correttamente parametrano il cd. punto tabellare sempre alla gravità della menomazione ed all'età del danneggiato, ma tuttavia propongono ora una liquidazione congiunta:
- del danno non patrimoniale conseguente a "lesione permanente dell'integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale", sia nei suoi risvolti anatomo-funzionali e relazionali medi ovvero peculiari; - del danno non patrimoniale conseguente alle medesime lesioni in termini di "dolore","sofferenza soggettiva", in via di presunzione in riferimento ad un dato tipo di lesione.
Quanto al danno professionale può verificarsi in diversa guisa, potendo consistere sia nel pregiudizio derivante dall'impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità (danno emergente), sia nel pregiudizio subito per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno (lucro cessante).
Anche rispetto a tale singola voce di danno - come di ogni altra - grava sul lavoratore l'onere di precisa allegazione, tramite l'indicazione di circostanze specifiche. Nella prova del danno è comunque utilizzabile la prova per presunzioni, valorizzandosi, per tale via, il dato dell'entità del demansionamento, della sua durata, dell'anzianità del lavoratore, elementi questi altresì utilizzabili nella successiva fase della liquidazione.
Nella fattispecie, come si è detto, lo ius variandi esercitato nei confronti del ricorrente, proprio perché ispirato ad una logica persecutoria, ha inevitabilmente comportato una drastica riduzione ed un impoverimento delle mansioni precedentemente espletate, determinando una considerevole dispersione di quel condizioni, abilità ed esperienze che l'istante aveva precedentemente maturato.
La esclusione del ricorrente dall'esercizio dell'attività operatoria, l'emarginazione e la riduzione alla progressiva totale inattività, non hanno consentito al ricorrente la piena utilizzazione e l'eventuale arricchimento del patrimonio professionale dallo stesso acquisito nella fase pregressa del rapporto, determinando, al contrario, uno svilimento delle conoscenze e delle abilità professionali precedentemente acquisite.
Avv. Ottavio Pannone