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La Suprema Corte, con interessante decisione del 28 maggio 2018 (Pres. A. Manna; est. M. Lorito), ha confermato la sentenza della Corte d'Appello di Roma del 18 maggio con la quale, il giudice del gravame, con articolata e completa motivazione, in riforma della pronuncia resa dal Tribunale, rigettava la domanda proposta dal dipendente della società, intesa a conseguire l'annullamento del licenziamento per giusta causa intimatogli in data 20/10/2010, con gli effetti reintegratori e risarcitori sanciti dall'art.18 1.300/70.

Occorre al riguardo premettere che, secondo il diffuso pensiero del giudice di legittimità, la giusta causa di licenziamento integra una clausola generale che richiede di essere concretizzata dall'interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici e giuridici (vedi Cass. 9/7/2015 n.14324).

Il giudice di merito investito della domanda con cui si chieda l'invalidazione di un licenziamento disciplinare, come diffusamente ricorda la sentenza richiamata, deve accertarne in primo luogo la sussistenza in punto di fatto, deve quindi verificare che l'infrazione contestata sia astrattamente sussumibile sotto la specie della giusta causa o del giustificato motivo di recesso e, in caso di esito positivo di tale delibazione, deve poi apprezzare in concreto la gravità dell'addebito, essendo pur sempre necessario che esso rivesta il carattere di grave negazione dell'elemento essenziale della fiducia e che la condotta del dipendente sia idonea a ledere irrimediabilmente la fiducia circa la futura correttezza dell'adempimento della prestazione dedotta in contratto, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del lavoratore dipendente rispetto all'adempimento dei suoi obblighi (cfr., ex aliis, Cass.13/2/2012 n. 2013, Cass.24/6/2016 n.13149).

"Mentre il giudizio di sussunzione è giudizio di diritto, in quanto tale sottoponibile anche a questa Corte, quello di mera proporzionalità in concreto fra illecito disciplinare e relativa sanzione è giudizio di fatto riservato al giudice di merito, che deve operarlo tenendo conto di tutti i connotati oggettivi e soggettivi della vicenda come, ad esempio, l'entità del danno, il grado della colpa o l'intensità del dolo, l'esistenza o meno di precedenti disciplinari a carico del dipendente".

Orbene, come evidenzia la sentenza della Suprema Corte, non può sottacersi che a siffatti principi si sia conformata la gravata pronuncia, che con motivazione immune da censure e ricca di chiami giurisprudenziali, ha accertato nella sua portata oggettiva la condotta assunta dal lavoratore, rapportandola agli standards valutativi insiti nella coscienza generale, conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale, e ne ha rimarcato la gravità, rammentando che la falsa attestazione della presenza in ufficio, mediante timbratura del badge identificativo ad opera di un terzo, implicava la violazione di fondamentali doveri scaturenti dal vincolo della subordinazione oltre ad integrare fattispecie penalmente rilevante (reato di tentata truffa).

"Né la Corte di merito ha omesso di considerare i riflessi di natura soggettiva della fattispecie, avuto riguardo alle condizioni personali del lavoratore, portatore di handicap, o al dedotto guasto alla autovettura che avrebbe indotto il lavoratore ricorrente ad indurre il collega a timbrare il cartellino in sua assenza, avendo ritenuto, all'esito di una ponderata valutazione di tutti gli elementi acquisiti, di ravvisare comunque il requisito di gravità della condotta, idoneo a vulnerare irrimediabilmente il vincolo fiduciario sotteso al rapporto e da giustificare, in quanto proporzionata, l'irrogazione della massima sanzione disciplinare".

In effetti la decisione della Corte d'Appello di Roma del 18 maggio 2016 (Pres. M. Tatarelli; est. O. Pannone), confermata dalla Suprema Corte, aveva puntualmente evidenziato le circostanze di fatto, opportunamente valutate ai fini della sussistenza della giusta causa. La Corte romana, con convincente ed esaustiva decisione, aveva precisato: "la sentenza gravata, dunque, appare, ictu oculi, errata laddove, senza coerente motivazione, valorizza alcuni elementi, del tutto irrilevanti, perdendo di vista la vera e reale condotta imputata al lavoratore, consistente nell'aver lasciato il badge identificativo in possesso di un collega il quale lo ha "strisciato", pur in assenza dell'appellato stesso dal lavoro".

Per la Corte d'appello risultava errata la decisione del Tribunale laddove aveva valorizzato elementi del tutto estranei all'oggetto della contestazione, perdendo di vista la concreta mancanza contestata (ed accertata) consistente nella falsificazione indicata.
Per cui, correttamente il giudice d'appello riconosceva la grave responsabilità addebitata al lavoratore "che mina inesorabilmente il rapporto fiduciario", esaminando la vicenda anche sotto il profilo di proporzionalità.

A tal fine è opportuno richiamare l'autorevole insegnamento della Suprema Corte (cfr. Cass. 5777/2015; Cass. 4693/2012) che, in analoga materia, ha statuito : "Infatti, con congrua motivazione la Corte d'appello, dopo aver adeguatamente valutato i fatti di causa, ha spiegato che la disinvolta violazione delle norme disciplinari e l'elusione dei sistemi di controllo approntati dalla datrice di lavoro rappresentavano sul piano soggettivo degli elementi che comportavano inevitabilmente il venir meno dei rapporto di fiducia in termini incompatibili con la prosecuzione, sia pure temporanea, del rapporto e non consentivano di ritenere adeguata una mera sanzione conservativa. Tra l'altro, come il giudice di legittimità ha già avuto occasione di statuire (Cass. Sez. Lav. n. 2906 dei 14/2/2005), "in tema di licenziamento, la nozione di giusta causa è nozione legale e il giudice non è vincolato alle previsioni di condotte integranti giusta causa contenute nei contratti collettivi; tuttavia ciò non esclude che ben possa il giudice far riferimento ai contratti collettivi e alle valutazioni che le parti sociali compiono in ordine alla valutazione della gravità di determinati comportamenti rispondenti, in linea di principio, a canoni di normalità. (Conf. Cass. Sez. L, n. 27464 del 22/12/2006). Sempre la Suprema Corte (sentenza 23 marzo 2012, n. 4693) confermava la sentenza della Corte di appello di Napoli, che in linea con la sentenza di primo grado, aveva rigettato la domanda proposta dal lavoratore nei confronti della società, avente ad oggetto l'impugnativa del licenziamento disciplinare intimato, in ragione della timbratura del badge ad opera di altro dipendente, sia per il ricorrente che di altri dipendenti, non presenti in azienda.

La Corte accertava, sulla base delle dichiarazioni -ritenute circostanziate, puntuali e concordanti- che nel momento in cui vennero timbrati i loro cartellini marcatempo, in realtà risultavano di fatto assenti come asserito nelle lettere di contestazioni.

Nella fattispecie in esame, dall'assenza del lavoratore dal posto di lavoro "conseguiva che la condotta posta in essere dai lavoratori ricorrenti in tale giorno fu frutto di un preventivo accordo diretto a far risultare fittiziamente ottemperato l'obbligo di regolare presenza sul posto di lavoro dei due nominati dipendenti".

"Pertanto, rimarcava la Corte napoletana, la condotta contestata appariva connotata da un elemento particolarmente intenso e fraudolento che implicava la violazione di fondamentali doveri scaturenti dal rapporto di lavoro subordinato, espressamente ribaditi anche dall'art. 18 del CCNL".

"Tale conclusione, a parere dei giudici di appello, trovava conforto altresì nelle norme del codice disciplinare e in quelle del CCNL che prevedevano il licenziamento senza preavviso di fatti che costituiscono delitto a termine di legge, come appunto l'illecito ascritto ai ricorrenti idoneo ad integrare gli estremi della fattispecie di cui all'art. 640 cp.".

Con la ulteriore precisazione che, con la timbratura del cartellino marcatempo di presenza, che costituisce giusta causa di licenziamento, il dipendente pone in essere un atto tipico univocamente diretto a dimostrare la sua presenza nel luogo di lavoro per la prestazione lavorativa.

Pertanto, qualora in seguito ad accertamento risulti l'assenza del lavoratore, la falsa timbratura integra gli estremi del delitto di tentata truffa aggravata ai sensi degli art. 56 e 640 c.p. (Cassazione penale, sez. II, 08/03/2011, n. 17096 Cassazione pena, sez. VI, 24/05/1995, n. 20296).

 

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Avv. Matilde Pannone