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Il lavoratore che si rifiuta di servire il cliente che non indossa la mascherina esercita il proprio diritto (costituzionalmente tutelato) a svolgere la propria prestazione in condizioni di sicurezza, considerando che essa lo esporrebbe ad un rischio di danno alla persona.  (Tribunale di Arezzo, sez. Lavoro, sentenza n. 9/21; depositata il 13 gennaio)

 

Con un’interessante sentenza (n. 9 del 13 gennaio 2021) il Tribunale di Arezzo ha confermato l’ordinanza già resa nella fase sommaria con la quale è stata dichiarata l’illegittimità dello stesso licenziamento intimato a un cassiere che si era rifiutato di servire un cliente sprovvisto di mascherina.

Il fatto da cui è scaturito il licenziamento riguarda un dipendente che, durante il turno notturno, si era rifiutato di servire un cliente senza mascherina (né strumenti di protezione alternativi) per l’acquisto di due pacchetti di sigarette. Da qui la richiesta del cassiere di coprirsi la bocca almeno col collo della felpa. Ne era nata una discussione dai toni accesi durante la quale il cliente non solo si era rifiutato di coprirsi la bocca, ma aveva anche offeso il cassiere dandogli del ladro. Tornato a casa, poi, si era lamentato su Facebook della “scortesia” usata nei suoi confronti.

Il datore di lavoro, piuttosto che prendere le difese del lavoratore, intimava il licenziamento per giusta causa poiché il dipendente sarebbe risultato “inadempiente nei confronti dei suoi obblighi contrattuali” per aver “disatteso le indicazioni aziendali previste in questo periodo di emergenza sanitaria”, e aver “danneggiato gravemente l’immagine aziendale”.

Il Tribunale di Arezzo ha rilevato, preliminarmente, che il fatto contestato al lavoratore non assurge a quei caratteri di gravità necessari per integrare la giusta causa di licenziamento, non recando alcun pregiudizio economico o all’immagine del datore di lavoro.

Anzi, il giudice ha osservato che “il lavoratore si è limitato ad esercitare il proprio diritto, costituzionalmente garantito, a svolgere la propria prestazione in condizioni di sicurezza e che l’esimente dello stato di necessità dettata dall’emergenza epidemiologica da COVID-19, consentiva al lavoratore - pur in assenza di una specifica disposizione di legge – addirittura anche di astenersi dal lavoro poiché «lo svolgimento della prestazione lo esponeva ad un rischio di danno alla persona».

Tanto che la condotta del dipendente – sostiene il Giudice - è del tutto giustificata dall’«esasperazione per una condotta altrui omissiva che denota un’ignorante sottovalutazione del fenomeno pandemico, accompagnata da frasi villane e sprezzanti della salute propria e degli altri, oltreché del cassiere»

Il Tribunale, inoltre, ha precisato che “la condotta censurata da parte datoriale è (…) inidonea a ledere definitivamente la fiducia alla base del rapporto di lavoro, così non integrando violazione del dovere di fedeltà posto dall’art. 2105 c.c. né, tantomeno, giusta causa di licenziamento”

Il datore di lavoro, quindi, risponde della mancata osservanza delle norme a tutela dell’integrità fisica dei dipendenti perché titolare di una posizione di garanzia dettata in primo luogo dall’articolo 2087 del Codice civile, al quale in periodo di emergenza si è aggiunto il Dpcm del 26 aprile 2020 che ha prescritto a tutte le imprese di osservare il protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro sottoscritto dal Governo e dalle parti sociali.

Sarebbe stato quindi onere del datore di lavoro assicurarsi che i clienti rispettassero le misure igienico-sanitarie prescritte dalle norme, incoraggiando i propri dipendenti a farle osservare anziché sanzionarli.

Su tali presupposti, il Tribunale di Arezzo dichiara illegittimo il licenziamento e dispone la reintegra del ricorrente nel proprio posto di lavoro.

Avv. Matilde Pannone